Ho letto questi libri nel periodo tra Luglio e Settembre. Era parecchio che non mi dedicavo così tanto alla lettura; quando ho potuto sono sempre stata una lettrice totalizzante, otto ore al giorno, quasi senza fare nient’altro, e quest’estate è stato un po’ come tornare a certi periodi di quando ero ragazza, in cui gli unici gesti della giornata erano sostenere un libro con le mani e voltare pagina quando necessario, prepararmi del cibo nel modo più semplice e veloce possibile, alzarmi per fare la pipì e ovviamente, purtroppo, dormire.🙃
Ho scelto 7 dei libri letti in questo periodo, ma tutti avrebbero meritato qualche parola. Li elenco qui secondo l’ordine temporale in cui si sono posati tra le mie mani. Non mi è mai piaciuto lasciare un libro a metà, ma prima di questa serie mi era capitato di non finire un titolo che in libreria mi aveva molto affascinata. In questa lista, solo con “I gatti di Shinjuku” ho avuto la tentazione; ho proseguito perchè si tratta di un libro breve, di neanche 200 pagine, e sono contenta di averlo finito.
Un ultimo piccolo avvertimento prima di iniziare la mia lista…Sono appassionata di horror e questo è il genere a cui appartengono alcuni dei libri di cui parlo qui sotto. Spero che le mie parole e impressioni di lettura possano darti qualche spunto, anche uscendo magari dai generi che frequenti di solito. Il genere “feel good” della letteratura coreana e giapponese che ho esplorato era totalmente sconosciuto, ma in alcuni casi la lettura è stata molto piacevole e portatrice di pensieri rassicuranti. Mi sono anche divertita a dare un voto ad ogni libro, anche se mi piace argomentare le mie opinioni.
Una piccola lavanderia a Yeonnam – Jiyun Kim
Una lavanderia automatica con un tavolo al suo interno su cui è appoggiato un quaderno; a questo quaderno i clienti affidano riflessioni, pensieri, domande e trovano risposte, accoglienza, aiuto. Ognuno dei personaggi attraversa un momento di crisi, di difficoltà, e la lavanderia diventa il luogo in cui sfogarsi, trascorrere del tempo in solitudine, ma anche trovare una nuova prospettiva, un nuovo modo di vedere le cose e tanta gentilezza da una persona sconosciuta.
Nel genere a cui appartiene – il “feel good” di cui sopra, che possiamo tradurre con “letteratura positiva” o “che produce sentimenti positivi”- la trama si svolge a partire da un momento di crisi da cui scaturiscono situazioni, incontri, eventi che portano il protagonista verso una rinascita, una riscoperta dei rapporti umani veri e dei valori più profondi della vita. La lavanderia è qui un posto in cui la condivisione è discreta, un luogo attorno a cui gravitano figure diverse e apparentemente molto lontane tra loro, avvicinate dalla condizione umana che condividono.
Questo genere sta vivendo un periodo di grande moda; io ci sono arrivata con autori coreani ma so che ci sono anche testi europei molto interessanti. Mi affascina molto l’ambientazione in estremo oriente e questi libri sono stati il punto di partenza per esplorare la letteratura orientale anche su altri temi.
Se questo libro ti ispira e ti piace ti consiglio anche “Il minimarket della signora Yeom” di Ho-Yeon Kim, altra opera di un autore coreano.
Voto: 7/10 – preferisco letture più “impegnate”, ma è un gusto totalmente personale.
Quando ho parlato di questo libro con chi mi chiedeva cosa stessi leggendo a metà Agosto mi veniva spontaneo rispondere: un horror americano “ignorante”, e per ignorante intendo quello che, anche letto in lingua originale, non necessita di un grande sforzo intellettuale, perchè scritto in modo semplice e con una trama vagamente prevedibile. Due coppie di giovani americani trascorrono una vacanza in Messico e, come diversivo rispetto alla vita da spiaggia, decidono di fare un’escursione nella giungla, dove scoprono una collina ricoperta da magnifici fiori e una specie di rampicante. Non sanno che la pianta ha un modo tutto particolare di nutrirsi e che, una volta saliti sulla collina, gli abitanti del villaggio alle sue pendici non permetteranno loro di rimettere piede all’esterno, con conseguenze che si possono intuire.
Subito dopo il libro ho rivisto il film – che avevo rimosso di avere visto già tempo fa – ma il libro è infinitamente più avvincente e interessante.
Voto: 7/10 – nella sua prevedibilità è un ottimo intrattenimento.
American psycho – Bret Easton Ellis
Era tempo che volevo leggere questo pilastro della letteratura contemporanea, e credo di esserci arrivata veramente quando ero pronta. Le prime pagine sono state davvero dure, dense di descrizioni ossessive, di dettagli su abbigliamento, abbronzatura, corporatura, commenti costanti su modi di fare, parlare, comportarsi. Ho voluto leggerlo in lingua originale e mi sono trovata spesso a cercare termini che indicano modelli di scarpe, vestiti. Poi ho lasciato andare, ho come colto un ritmo, e l’ossessività della scrittura è diventata familiare, quasi rassicurante, un pattern ricorrente che ormai mi aspettavo.
Ho visto il film con Christian Bale almeno tre volte e, per quanto non sia una visione leggera, si trova ad anni luce di distanza dalla violenza descritta nel libro, che è delirante, enorme, inimmaginabile. Patrick Bateman non è una figura statica, ma si evolve in modo drastico durante la narrazione, sprofondando in un delirio che cerca spesso di comunicare a chi gli sta vicino, ma che rimane inascoltato, solitario, incompreso. Con il suo “I’m a very sick guy”, nella confessione che lascia sulla segreteria telefonica del suo avvocato, esprime la voce di una consapevolezza, la certezza che le proprie azioni sono abominevoli. Eppure quando ogni sua azione viene bonificata da una mano sconosciuta, in quell’atto c’è una validazione di quelle stesse azioni, e ciò che ne consegue è una celebrazione della propria sete delirante. Bateman è un’idea, l’idea che sotto al conformismo e alla ricerca di piacere e ricchezza sia in costante sobbollire una fame di libertà, di evasione da regole imposte, da costrizioni standardizzate. La violenza che sceglie per esprimersi ricorda un po’ l'”ultraviolenza” di Alex di “Arancia meccanica”: arbitraria, impietosa, usata come passatempo e sfogo, diretta sia ai barboni sdraiati malamente ai lati della strada, sia alle donne che usa come oggetti sessuali, di cannibalismo e necrofilia.
Nella postfazione l’autore racconta di come il libro sia scaturito dalla sua esperienza personale nella ricerca di aderire a un modello: quello dell’uomo di successo, inserito in un mondo in cui le apparenze sono più importanti della sostanza e dove i soldi e il potere sono il fine ultimo.
“C’è un’idea di Patrick Bateman, una sorta di astrazione, ma non c’è un vero me; solo un’entità, qualcosa di illusorio, e anche se posso nascondere il mio sguardo impassibile e puoi stringermi la mano e sentirne la carne e il calore, e magari anche percepire che i nostri stili di vita sono simili: semplicemente io non ci sono. Sono una finzione, una aberrazione. Sono un essere umano non esistente. La mia personalità è vaga e informe, la mia insensibilità è profonda e persistente…Il mio dolore è costante e affilato e non ripongo speranze in un mondo migiore per nessuno. Anzi, voglio che la mia sofferenza venga inflitta agli altri. Che nessuno sfugga.”
Voto: 9/10 – avevo amato il film ma il libro è veramente a un altro livello. Penso che necessiti di una rilettura in futuro per cogliere suggestioni che nella prima non ho percepito.
Superficialmente si può dire che La vegetariana parli di famiglia disfunzionale, solitudine, violenza domestica, anoressia, malattia mentale. La narrazione segue il punto di vista di tre personaggi diversi: nessuno di loro è la vegetariana del titolo, ma tutti ruotano intorno alla sua persona, gravitando in avvicinamento e in allontanamento. I temi trattati sono brutali, scomodi, inducono un moto di avversione e repulsione.
Eppure spesso mi sono ritrovata a sottolineare frasi intere, per la poesia delle espressioni, la magia delle immagini. Riporto un breve passo molto estremo, verso la fine del libro:
“Il camice bianco del medico è tutto sporco del sangue di Yeon-hye, anche sulle maniche arrotolate. In-hye fissa con aria assente il disegno formato dagli schizzi. Una vorticosa galassia di stelle insanguinate”
La vegetariana è la storia di una donna che si ripiega su se stessa perchè dagli altri non riceve accoglienza, ascolto, comprensione; viene data per scontata come moglie, come ingranaggio di una società di cui è tenuta a rispettare le regole, viene trattata come un oggetto sessuale. Eppure il suo progressivo distacco e delirio trasmettono una sorta di serenità folle; c’è una ragione nelle sue scelte, che la riporta verso la natura. Le immagini dei boschi, dei fiori e degli alberi sono una costante di tutti e tre i capitoli. E una delle immagini più belle e deliranti quella che vede Yeon-hye a testa in giù, nella disperata e pazza ricerca di diventare un albero.
“Io non lo sapevo. Pensavo che gli alberi stessero a testa in su… L’ho scoperto solo adesso. In realtà stanno con entrambe le braccia nella terra, tutti quanti…Tutti quanti, stanno tutti a testa in giù… Sai come l’ho scoperto? Be’ ho fatto un sogno, e stavo sulla testa… Sul mio corpo crescevano le foglie, e dalle mani mi spuntavano le radici… E così affondavo nella terra. Sempre di più… Volevo che tra le gambe mi sbocciassero dei fiori, così le allargavo, le divaricavo completamente…”
La voce della vegetariana è una voce sottile ma molto ferma. Una voce che si manifesta solo in alcuni momenti nel primo capitolo, nelle fasi embrionali del suo percorso, quando ancora le possibilità mancate della realtà sono più forti del richiamo di quel mondo immaginario e folle a cui Yeon-hye finisce per abbandonarsi.
Voto: 10/10 – direi “impressive”, che tradurrei con potente e spiazzante; è il libro che – insieme a La ragazza del convenience store – mi gira ancora in testa settimane dopo la lettura. Immagini potenti, scrittura sublime.
L’atmosfera è claustrofobica: Oghi è quasi sempre da solo, chiuso nella stanza di casa sua in cui riceve le cure della suocera dopo un incidente in cui, coinvolti entrambi, sua moglie ha perso la vita. Sarebbe facile simpatizzare per lui, empatizzare nella ricerca della guarigione, muscolo dopo muscolo, e vedere nella suocera un ostacolo a questa ripresa. Eppure, pagina dopo pagina, il dubbio cresce: che Oghi sia tutt’altro che vittima, che la suocera stia solo assecondando un karma ben preciso, e che chi ha più sofferto durante la vita insieme a Oghi sia stata sua moglie.
Ho ritrovato spesso il paragone con Misery di Stephen King nelle recensioni ed è innegabile che ci siano dei parallelismi. Ma qui ciò a cui Oghi si trova di fronte non è una fan squilibrata con un passato inquietante e istinti omicidi; ciò che vede intorno a sè sono omissione, inazione, freddezza, disprezzo, che per la maggior parte scaturiscono da una risposta al suo modo di essere, presente e passato. E la sua unica disperata iniziativa, anzichè essere salvifica, lo porta a sprofondare nella voragine creata dalle sue stesse azioni: un baratro di noncuranza, egoismo, arrivismo.
Spulciando sul sito dell’editore, si scopre che il titolo gioca con la traslitterazione della parola inglese “hole”: si può pensare riferita a un buco reale, scavato nel terreno, ma equivale al prefisso coreano “hol” che significa ” da solo” e in particolare si riferisce a qualcuno che è vedovo.
“Come Oghi è ora un invalido e un vedovo, intrappolato nella solitudine del suo corpo devastato dall’incidente, sua suocera è una vedova e madre in lutto che non si è mai ripresa dal fatto di crescere per metà giapponese in una società che guarda con sospetto alle altre etnie. Entrambi sono profondamente soli, anche quando sono insieme. Oghi tenta una fuga disperata solo per scoprire che non c’è via d’uscita dal buco che è stato scavato – in senso letterale e figurato – in mezzo alla sua vita, ed è lì che apprende una dura verità su sua moglie e sulle conseguenze che ha avuto su di lei la loro vita insieme.”
Voto: 7/10 – non uno dei miei preferiti, ma abile nel creare una tensione psicologica crescente e che sfocia in un finale non del tutto prevedibile.
I gatti di Shinjuku – Durian Sukegawa
Ho odiato questo libro fino a tre quarti, resitito perchè avevo preso l’impegno di leggerlo, temporeggiato in attesa di un evento che desse una svolta alla storia, che non trovavo particolarmente esaltante.
A un certo punto ho pensato che il colpo di scena fosse arrivato, ma non mi ha entusiasmata, l’ho trovato storto e incomprensibile.
Al dodicesimo capitolo ho cominciato a piangere e non ho smesso fino all’ultima riga. E non so bene perchè: forse non riesco a sentir parlare delle possibilità perse, della serenità con cui si accetta ciò che è arrivato e non ciò che avrebbe potuto essere, tutto ciò di cui mi sento terribilmente incapace.
Credo anche che ci sia qualcosa che mi si muove dentro ogni volta che si parla di gatti. In questa storia sono così presenti eppure sempre così indifesi, indipendenti, resilienti. Come i gatti, i protagonisti della storia vanno avanti, ognuno come sa fare, nonostante ciò che accade.
Leggendo questo libro mi è venuta voglia di scrivere le poesie che solo io posso dedicare ai miei gatti. E forse, quando sarò pronta, di fare un viaggio a Istanbul, la città dei gatti per eccellenza, dove ho il sospetto che potrei imparare a lasciar andare ciò che non posso salvare, fiduciosa che ogni creatura compie comunque il proprio destino .
“Però chi, come me e Yume, guarda i gatti fin nel bagliore degli iridi, prende l’incontro con loro in modo totalmente diverso. I gatti vengono a sussurartelo, il tuo destino. In una lingua che solo i gatti e pochissimi esseri umani comprendono”.
Voto: 6/10 – alcuni dettagli della trama sono inconsistenti e non ho amato come sono stati “liquidati” i gatti a un certo punto della storia.
La ragazza del convenience store – Sayaka Murata
La ragazza del convenience store è diventato inaspettatamente – insiema a La vegetariana – uno dei libri che ha continuato a diffondere la sua eco dentro di me settimane dopo averlo finito, e dopo il quale ho avuto voglia di leggere tutto di Sayaka Murata (al momento mi manca solo La cerimonia della vita) e di guardare qualche intervista in cui spiega la sua poetica e il suo modo di scrivere.
Il konbini in cui lavora Keiko è il luogo in cui riesce a sentirsi “normale” e a inserirsi in una società di cui non condivide le regole e che la vorrebbe sposata e con figli, anzichè con un lavoro precario senza pretese e sola a trentasei anni. Keiko rappresenta una categoria di persone che ha una necessità profonda di esprimere il proprio modo di essere, naturalmente non allineato con quello degli altri, e che non può farlo se non rivestendo una maschera di normalità come meglio può. Il minimarket diventa il luogo sicuro in cui rifugiarsi per sottrarsi alle pressioni di famiglia, amicizie, società. Quando il minimarket assume Shiraha, coetaneo di Keiko, soggetto improbabile e altrettanto reticente ad asservirsi alla logica della “fabbrica” sociale, Keiko intravede la possibilità di condividere con lui la propria vita e il proprio pensiero. Rimane da chiedersi chi avrà la meglio, se l’ingranaggio sociale o l’individualità istintiva di Keiko.
“Irasshaimase!!! Buongiorno!” grido con tutto il fiato che ho in gola. Adoro questo momento. L’istante in cui il primo ingranaggio del mattino si mette in moto dentro di me. Il trillo ripetuto che accompagna l’ingresso dei clienti risuona come le campane di una chiesa. La scatola rettangolare di vetro luminoso e trasparente mi accoglie dentro di sè. Un mondo perfetto, immutabile, che continua a girare senza sosta. Nutro una fede assoluta e cieca in questo microcosmo lucente.”
Voto: 10+/10 – il mio preferito. Quando riconosci uno spirito “gemello” in una scrittrice e parte un’ossessione che ti costringe a leggere tutti i suoi libri, vedere che faccia ha, sapere come parla (ho passato due giorni a vedere tutte le sue interviste su YouTube – in giapponese con i sottotitoli, in estasi). Murata come Nothomb, un colpo di fulmine.
E tu? Quali sono stati i libri che hanno continuato a muovere i tuoi pensieri nella loro direzione anche dopo averli finiti?😊
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2 Comments
Monica · 8 Novembre 2024 at 12:17
Dopo i due libri appena acquistati della psicanalista Ellen Langer alla quale sono arrivata in seguito alla lettura di un esperimento molto interessante da lei effettuato nel 1979 , leggerò sicuramente “La ragazza del convenience store di Sayaka Murata” visto che mi sto lentamente ma inesorabilmente avvicinando al mondo giapponese. Consiglio il film “The perfect days” uscito forse un anno fa nelle sale cinematografiche.
Le mie recenti letture ruotano, invece, intorno a due autori (guarda caso entrambi ebrei…una coincidenza?). Uno è uno psicanalista Irvin Yalom (di lui ho letto tutto ma “Il problema Spinoza” e “La cura Shopenauer” rimangono i miei preferiti) mentre l’altro è un insegnante di storia dell’università di Gerusalemme, Yuval Noah Harari (“Homo Sapiens – da animali a dei” è stato il primo e posso considerarlo il trampolino di lancio verso un nuovo modo di porsi le domande).
un abbraccio Silvia, ti seguo con profonda stima.
Monica Rossi
Silvia · 8 Novembre 2024 at 16:58
Grazie Monica per le tue parole!! Il Giappone ha un mondo letterario molto interessante e direi irresistibile!! Io ancora non sono uscita dal mio viaggio in estremo oriente, passando anche dalla Corea del Sud.Vorrei essere capace di scrivere come Mieko Kawakami e avere la fantasia di Sayaka Murata. Mi rendo conto che sto leggendo solo donne!! Ho chiesto qualche consiglio su cosa leggere di Haruki Murakami ma non mi sono ancora decisa a comprare nulla. Ho “Sapiens” a casa ma anche lì non è arrivato il momento di leggerlo. Mi è capitato spesso che arrivasse il “libro giusto al momento giusto” e sono certa che arriverà anche il suo momento. Grazie per il consiglio cinematografico, è già nella mia lista! Un abbraccio grande e a presto! <3 Silvia